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Ken Jennings: Watson, Jeopardy e io, il tuttologo obsoleto.

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    Fra due settimane sarà il nono anniversario
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    del primo giorno in cui ho fatto la mia comparsa in quel benedetto programma "Jeopardy".
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    Beh, nove anni sono tanti.
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    Considerata la media demografica di "Jeopardy",
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    credo significhi che
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    la maggior parte delle persone che mi hanno visto in quel programma sono morte.
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    (Risate) Ma non tutte, alcune
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    saranno ancora vive. A volte,
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    al centro commerciale o in altri posti, ancora mi riconoscono.
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    E quando succede, passo per quello che le sa un po' tutte.
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    Ma quella nave è già salpata, credo. Non ho più scelta.
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    Nel bene o nel male, passerò sempre per quel tizio
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    che sapeva un sacco di cose strane.
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    E non posso lamentarmi di questo.
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    Credo sia sempre stato un po' il mio destino,
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    anche se per molti anni mi son trovato in fondo allo sgabuzzino dei giochi a premi.
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    Se non altro, da adolescente ti accorgi in fretta
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    che conoscere il secondo nome del Capitano Kirk non impressiona le ragazze.
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    (Risate)
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    Risultato: per molti anni sono stato una specie di "tuttologo" non dichiarato.
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    Ma se andiamo indietro nel tempo, se date un'occhiata, è tutto lì.
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    Ero quel genere di bambino che infastidiva sempre mamma e papà
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    con qualsiasi informazione leggesse.
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    La cometa di Haley, o i calamari giganti,
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    o le dimensioni della torta di zucca più grande del mondo o qualsiasi altra cosa.
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    Adesso ho un figlio di 10 anni che è esattamente così.
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    E so quanto sia profondamente fastidioso, pertanto posso dire che il karma funziona.
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    (Risate)
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    Adoravo i giochi a premi in TV, ne ero affascinato.
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    Ricordo che nel lontano 1979, al primo giorno di asilo, piansi perché,
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    per quanta voglia avessi di andare a scuola,
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    mi resi conto che mi sarei perso "Hollywood Squares" e "Family Feud".
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    Mi sarei perso i miei programmi di giochi a premi.
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    E in seguito, a metà degli anni '80,
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    quando tornò in onda "Jeopardy",
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    ricordo che mi precipitavo a casa da scuola ogni giorno, per guardare il programma.
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    Era il mio preferito, anche prima che mi facesse guadagnare i soldi per comprarmi casa.
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    Vivevamo oltreoceano, in Corea del Sud, dove mio padre
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    lavorava, e c'era solo un canale TV in lingua inglese.
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    Era la TV delle Forze Armate,
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    e se non parlavi coreano, non c'era altro.
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    Così, ogni giorno, io e tutti i miei amici correvamo a casa a guardare "Jeopardy".
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    Sono sempre stato quel tipo di bambino ossessionato dalle nozioni.
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    Ricordo che ero capace di giocare con i miei genitori a Trivial Pursuit negli anni '80,
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    quando andava di moda, e tener loro testa.
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    Si sente uno strano senso di supremazia
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    quando si sanno delle cose che mamma e papà non sanno.
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    Sai delle curiosità sui Beatles che papà non sa.
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    E pensi: ah-ah, la conoscenza è davvero potere--
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    l'informazione giusta sbandierata proprio al momento giusto.
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    Non ho mai avuto qualcuno che mi guidasse,
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    che lo ritenesse un legittimo percorso per una carriera,
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    pensasse che avrei potuto specializzarmi nel nozionismo
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    o diventare un ex-concorrente di giochi a premi professionista.
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    E così mi sono bruciato fin troppo giovane.
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    Non cercai di capire cosa farne.
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    Studiai informatica perché a molti sembrava l'idea migliore,
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    ed ero un programmatore, nel 2004--
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    non particolarmente bravo,
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    non particolarmente felice-- quando feci la mia prima apparizione su "Jeopardy".
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    Era il mio mestiere, ai tempi.
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    E il mio background informatico rese la cosa doppiamente ironica--
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    qualche anno dopo, credo fosse il 2009,
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    quando mi chiamarono di nuovo da "Jeopardy" e mi dissero:
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    "È ancora presto, ma la IBM ci ha informati
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    che hanno intenzione di creare un super computer per batterti a 'Jeopardy'.
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    Ci vuoi provare?"
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    Fu lì che iniziai a sentirne parlare.
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    E naturalmente dissi di sì, per molte ragioni.
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    Primo, perché giocare a "Jeopardy" è fantastico.
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    È divertente. È la cosa più divertente che si possa fare tenendo su i pantaloni.
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    Lo farei anche gratis: per fortuna
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    non penso che se ne siano accorti,
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    ma tornerei indietro e giocherei anche solo per i buoni pasto di Arby's.
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    Io adoro "Jeopardy", da sempre.
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    E secondo, perché sono un fanatico del computer e questa sfida mi sembrava il futuro.
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    La sfida contro i computer nei giochi a premi
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    era uno scenario che avevo sempre immaginato sarebbe successo in futuro,
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    e ora potevo sfidarli io stesso.
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    Non avrei rifiutato.
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    In terzo luogo, accettai
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    perché ero abbastanza sicuro di vincere.
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    Avevo studiato un po' di intelligenza artificiale:
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    sapevo che non c'erano computer in grado di fare quello che un umano deve fare per vincere a "Jeopardy".
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    La gente non coglie quanto sia difficile creare dei programmi
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    in grado di leggere un indizio di "Jeopardy" in una lingua come l'inglese
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    e comprendere tutti i doppi sensi, i giochi di parole, i depistaggi,
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    di scoprire il significato esatto dell'indizio.
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    Quello che un bambino di 3 o 4 anni è in grado di fare,
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    per un computer è molto difficile.
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    Così pensai: beh, sarà un gioco da ragazzi.
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    Annienterò il computer, e difenderò la mia specie.
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    (Risate)
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    Ma col passare degli anni,
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    mentre la IBM investiva denaro, forza lavoro e velocità di processori sul progetto,
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    iniziai a ricevere qualche notizia sui progressi,
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    e iniziai un pochino a preoccuparmi.
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    Ricordo un articolo su un nuovo software per rispondere alle domande,
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    con un grafico a dispersione che mostrava la performance su "Jeopardy",
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    decina di migliaia di punti che rappresentavano i campioni di "Jeopardy" nella parte alta
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    con le loro performance tracciate su un numero di--
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    stavo per dire domande a cui è stata data risposta, ma credo siano "risposte domandate",
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    indizi a cui è stato risposto--
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    rispetto all'accuratezza di quelle risposte.
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    Pertanto c'è un certo livello di performance a cui il computer deve arrivare.
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    E all'inizio era molto basso.
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    Non esisteva un software in grado di competere in questo tipo di arena.
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    Ma poi si vede che la linea comincia a salire.
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    E si avvicina molto alla cosiddetta "soglia del vincitore".
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    E notai sul grafico, in alto a destra,
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    alcuni punti più scuri, neri, che avevano un colore diverso.
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    E pensai, cosa sono questi?
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    "I punti neri in alto a destra rappresentano il 74 volte campione di "Jeopardy" Ken Jennings."
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    E vidi che questa linea andava verso di me.
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    E capii: ecco, è questo.
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    Il futuro ha questo aspetto, quando ti si avvicina.
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    Non è l'arma di Terminator.
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    È una linea sottile che si avvicina sempre più a quello che sai fare,
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    l'unica cosa che ti rende speciale, quella cosa che sai fare meglio di chiunque.
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    Quando finalmente un anno dopo ci fu la sfida,
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    fu molto diverso dal "Jeopardy" a cui ero abituato.
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    Non abbiamo giocato a Los Angeles, sul solito set.
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    Watson non si sposta.
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    Watson è davvero enorme.
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    È un insieme di migliaia di processori, un terabyte di memoria,
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    trilioni di byte di memoria.
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    Siamo dovuti andare nella sua stanza climatizzata.
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    È l'unico sfidante di "Jeopardy" nel quale sia stato dentro, finora.
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    Watson non si sposta.
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    Sei tu che devi andare da lui. Devi fare un pellegrinaggio.
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    Così, io e l'altro giocatore umano
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    finimmo in questo laboratorio di ricerca segreto della IBM
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    in mezzo alle foreste innevate della Contea di Westchester
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    per giocare contro il computer.
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    E ci siamo immediatamente resi conto
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    che il computer aveva un enorme vantaggio, giocando in casa.
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    In mezzo al set c'era un grande logo di Watson.
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    Come se andaste a giocare contro i Chicago Bulls
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    e in mezzo al campo ci fosse il loro logo.
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    E il pubblico era costituito da personalità e programmatori della IBM
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    che facevano il tifo per la loro creatura,
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    avendo investito milioni di dollari su quel progetto
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    e speravano che gli umani venissero sconfitti, avevano cartelli
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    con scritto "Forza Watson"
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    e applaudivano come una parata di mamme ogni volta che la loro creatura dava la risposta esatta.
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    Credo che alcuni ragazzi si siano dipinti sulla pancia la scritta "W-A-T-S-O-N".
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    Se provate a immaginarvi dei programmatori con la scritta "W-A-T-S-O-N" sulla panza,
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    non è un bel vedere.
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    Ma avevano ragione. Avevano perfettamente ragione.
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    Non voglio rovinarvi la sorpresa, se la
    cassetta ancora attende nel lettore,
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    ma Watson ha vinto con facilità.
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    Ricordo che stavo in piedi dietro al podio
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    quando ho sentito quel piccolo pollice da insetto che cliccava.
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    Aveva un pollice robotico che cliccava sul pulsante.
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    E si sentiva quel suono tick, tick, tick, tick.
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    E ricordo di aver pensato, è fatta.
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    Mi sono sentito obsoleto.
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    Mi sono sentito come un operaio di Detroit degli anni '80
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    che vede un robot in catena di montaggio fare il lavoro un tempo suo.
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    Sentivo che il lavoro di concorrente ai quiz era diventato obsoleto,
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    in questa nuova era di computer pensanti.
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    E ci son stati altri momenti così.
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    Se guardate le notizie, vedrete occasionalmente--
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    e io lo vedo continuamente--
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    i farmacisti, ad esempio: ora c'è un macchinario che evade le prescrizioni mediche automaticamente,
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    senza la necessità di un farmacista umano.
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    E molti studi legali fanno a meno degli assistenti,
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    perché esiste un software che è in grado di ricapitolare precedenti legali, dossier e sentenze.
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    Non servono più assistenti umani, per fare tutto questo.
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    L'altro giorno ho letto di un programma in cui si inseriscono i punteggi
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    di una partita di baseball o football
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    e la macchina scrive la notizia, come se fosse stato un umano
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    a guardare e commentare la partita.
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    Ovviamente queste nuove tecnologie non sono in grado di fare un lavoro brillante o creativo
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    come gli umani che sostituiscono,
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    ma sono più veloci e soprattutto molto, molto più economici.
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    Tutto ciò mi porta a chiedere quali potrebbero essere gli effetti economici.
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    Ho letto che alcuni economisti affermano che grazie a queste nuove tecnologie
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    ci sarà una nuova età dell'oro del tempo libero
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    in cui tutti avremo tempo per ciò che amiamo davvero,
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    perché tutti i compiti noiosi verranno svolti da Watson e dai suoi confratelli digitali.
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    E ho sentito altri affermare il contrario,
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    che questo è un ulteriore settore della classe media
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    che si vede rubare quello che sa fare dalle nuove tecnologie,
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    e che questo è davvero un brutto segno,
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    di cui dovremmo preoccuparci.
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    Io non sono un economista.
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    Quello che so è come ci si sente a essere il tizio buttato fuori dal lavoro.
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    È stato maledettamente demoralizzante. Terribile.
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    Era la sola cosa in cui ero bravissimo,
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    e alla IBM è bastato investire decine di migliaia di dollari, il suo personale migliore,
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    migliaia di processori che funzionavano insieme
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    per riuscire a fare la stessa cosa.
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    Sono riusciti a farlo un po' più velocemente e un po' meglio sulla TV nazionale,
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    ed ecco che:"Mi dispiace, Ken. Non abbiamo più bisogno di te."
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    Questo mi ha fatto riflettere su cosa significhi
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    poter cominciare a delegare,
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    e non solo le funzioni cerebrali inferiori meno importanti.
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    Molti di voi, sono sicuro, ricordano quando tempo fa dovevamo
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    ricordarci i numeri di telefono, ricordavamo quelli dei nostri amici.
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    All'improvviso una macchina riuscì a farlo,
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    e ora non dobbiamo più ricordare i numeri di telefono.
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    In effetti, ho letto, ora abbiamo le prove
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    del fatto che l'ippocampo, la parte del nostro cervello che si occupa delle relazioni spaziali,
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    fisicamente si restringe e atrofizza
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    nei soggetti che usano strumenti come il GPS,
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    perché non viene più esercitato il senso dell'orientamento.
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    Ci limitiamo a seguire una voce sul pannello di controllo.
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    E così la parte del cervello preposta all'orientamento
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    diventa più piccola e ottusa.
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    Questo mi ha portato a pensare: cosa succederà quando i computer saranno più bravi di noi
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    a sapere e ricordare le cose?
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    Il nostro cervello comincerà a collassare e atrofizzarsi?
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    Cominceremo a dare meno valore alla conoscenza delle cose?
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    Dato che ho sempre creduto nell'importanza di ciò che sappiamo,
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    questo era un pensiero terrificante per me.
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    Più ci pensavo e più mi convincevo che no, la conoscenza era ancora importante.
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    Le cose che sappiamo hanno ancora la loro importanza.
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    Arrivai alla conclusione che vi fossero due vantaggi
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    che possiedono quelli di noi che questo genere di cose le hanno in testa
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    rispetto a chi dice, "Oh, sì. Posso cercarlo su Google. Dammi un secondo."
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    C'è un vantaggio in volume e c'è un vantaggio di tempo.
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    Il vantaggio di volume, per iniziare,
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    ha a che fare con la complessità del mondo al giorno d'oggi.
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    C'è tanta informazione, là fuori.
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    Essere rinascimentali, uomini
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    o donne, è possibile solo nel Rinascimento.
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    Ma non è realmente possibile
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    ricevere un'educazione adeguata in ogni campo del comportamento umano.
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    È decisamente troppo.
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    Dicono che la portata delle informazioni umane
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    sta raddoppiando ogni 18 mesi circa,
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    la somma totale delle informazioni umane.
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    Ciò significa che da adesso alla fine del 2014
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    produrremo tante informazioni, in termini di gigabyte,
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    quante l'umanità ne ha prodotte in tutti i millenni precedenti messi insieme.
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    Stanno raddoppiando ogni 18 mesi.
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    Questa cosa è terrificante, perché molte delle grandi decisioni che prendiamo
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    richiedono la padronanza di molti diversi tipi di informazioni.
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    Una decisione come, ad esempio, in che scuola vado? In cosa dovrei diplomarmi?
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    Per chi voto?
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    Scelgo questo lavoro o quall'altro?
  • 11:40 - 11:43
    Queste decisioni richiedono delle corrette valutazioni
  • 11:43 - 11:45
    su svariati tipi di informazioni.
  • 11:45 - 11:47
    Con queste informazioni nella nostra mente,
  • 11:47 - 11:50
    saremo in grado di prendere delle decisioni ponderate.
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    Se invece dobbiamo ricercarle tutte,
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    rischiamo di trovarci nei guai.
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    Ho letto un sondaggio del National Geographic,
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    secondo cui l'80% circa
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    dei votanti in un'elezione presidenziale negli Stati Uniti, su questioni come la politica estera
  • 12:03 - 12:06
    non riescono a localizzare l'Iraq o l'Afghanistan sulla carta geografica.
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    Se non riuscite a fare quel primo passo,
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    volete davvero andare cercare le altre migliaia di nozioni da sapere
  • 12:11 - 12:14
    per padroneggiare la vostra conoscenza della politca estera statunitense?
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    Molto probabilmente no.
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    A un certo punto direte:
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    "Troppa roba da sapere, lasciamo stare."
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    E la tua decisione sarà meno informata.
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    Poi c'è la questione del vantaggio del tempo,
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    se hai già a disposizione tutte queste cose.
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    Mi viene sempre in mente la storia di quella ragazzina di nome Tilly Smith.
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    Era una bambina di 10 anni originaria del Surrey, Inghilterra,
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    in vacanza con i genitori a Phuket, Thailandia, qualche anno fa.
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    Una mattina corre verso di loro,
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    sulla spiaggia, e dice, "Mamma, papà, dobbiamo andarcene."
  • 12:40 - 12:42
    E loro rispondono, "Cosa dici? Siamo appena arrivati."
  • 12:42 - 12:45
    E lei, "Il mese scorso, durante la lezione di geografia, il prof. Kearney
  • 12:45 - 12:48
    ci ha spiegato che quando la marea si ritira così all'improvviso,
  • 12:48 - 12:50
    ma le onde, al largo, montano senza sosta,
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    significa che sta arrivando uno tsunami, e bisogna andare via dalla spiaggia".
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    Che fare se vostra figlia, a 10 anni, parla così?
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    Meditarono sulle sue parole,
  • 12:58 - 13:00
    e decisero, onore al merito, di crederle.
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    Informarono i guardaspiaggia e tornarono in hotel.
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    I guardaspiaggia fecero evacuare più di 100 persone dalla spiaggia, fortunatamente,
  • 13:06 - 13:09
    perché quello fu il giorno dello tsunami del Boxing Day,
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    il giorno dopo il Natale 2004,
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    che uccise migliaia di persone nel sud-est dell'Asia e nelle coste sull'Oceano Indiano.
  • 13:14 - 13:17
    Ma non su quella spiaggia, non sulla spiaggia di Mai Khao,
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    perché questa bambina si era ricordata di un'informazione che le aveva dato il suo insegnante di geografia un mese prima.
  • 13:22 - 13:24
    Quindi, con le informazioni così a portata di mano--
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    adoro questa storia, perché dimostra il potere di un'informazione,
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    una sola nozione ricordata esattamente nel momento giusto e nel posto giusto-- una cosa,
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    di solito, più facile da vedere in un quiz che nella vita
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    di tutti i giorni. Ma in quel caso successe davvero.
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    Nella vita reale succede, continuamente.
  • 13:38 - 13:40
    Spesso è un'occasione sociale, non uno tsunami.
  • 13:40 - 13:45
    È una riunione, un colloquio di lavoro, o un primo appuntamento,
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    o una qualche relazione resa più fluida
  • 13:47 - 13:50
    dalla condivisione di qualche conoscenza comune tra due persone.
  • 13:50 - 13:53
    Voi dite da dove venite e io dico, "Ah, sì". Oppure
  • 13:53 - 13:54
    la vostra Università o il vostro lavoro.
  • 13:54 - 13:56
    Io so qualcosa sull'argomento,
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    abbastanza da rompere il ghiaccio.
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    Ci piace quel contatto reciproco che si crea
  • 14:00 - 14:02
    quando qualcuno conosce qualcosa di voi.
  • 14:02 - 14:06
    È come se si fossero presi la briga di conoscervi ancora prima che vi incontraste.
  • 14:06 - 14:07
    Spesso è un vantaggio di tempo:
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    Dire, "Ah, aspetta. Tu sei di Fargo,
  • 14:09 - 14:14
    North Dakota. Fammi dare un'occhiata. Ah, sì. Roger Maris era di Fargo",
  • 14:14 - 14:16
    non è altrettanto efficace.
  • 14:16 - 14:19
    Non funziona. È semplicemente fastidioso.
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    (Risate)
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    Il grande teologo e pensatore britannico del diciottesimo secolo, amico del Dr. Johnson,
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    Samuel Parr una volta disse: "È sempre meglio sapere una cosa che non saperla."
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    E se mai ho ispirato la mia vita a qualche credo, beh, probabilmente è proprio questo.
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    Ho sempre creduto che le cose che sappiamo-- che la conoscenza, sia una cosa assolutamente positiva,
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    le cose che abbiamo imparato e ci portiamo nella testa
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    ci rendono ciò che siamo,
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    come individui e come specie.
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    Non sono sicuro di voler vivere in un mondo dove il sapere è obsoleto.
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    Non voglio vivere in un mondo dove l'alfabetismo culturale è stato sostituito
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    da queste piccole bolle di specialità,
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    così che alla fine nessuno di noi sa nulla delle associazioni comuni
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    che di solito tenevano insieme la nostra civilizzazione.
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    Non voglio essere l'ultimo che le sa tutte,
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    seduto su qualche montagna,
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    recitando a me stesso le capitali degli stati, i titoli degli episodi dei Simpson
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    e i testi delle canzoni degli Abba.
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    Credo che la nostra civiltà funzioni se è frutto di una vasta eredità culturale condivisa
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    che non deleghiamo ai nostri dispositivi,
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    motori di ricerca e smartphone.
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    Nei film, quando i computer come Watson cominciano a pensare,
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    le cose non sempre vanno a finire bene.
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    Quei film non parlano mai di bellissime utopie.
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    C'è sempre un terminator o un matrix o un astronauta espulso da una camera d'equilibrio in "2001."
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    Le cose finiscono sempre malissimo.
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    Io sento che ci stiamo avvicinando al momento
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    in cui dobbiamo scegliere il futuro in cui vogliamo vivere.
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    È una questione di leadership,
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    perché la domanda riguarda chi guiderà il futuro.
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    Da una parte, possiamo scegliere tra una nuova età dell'oro
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    in cui le informazioni sono più disponibili per tutti
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    di quanto siano mai state nella Storia,
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    in cui abbiamo tutti le risposte a portata di mano.
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    E dall'altra parte,
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    abbiamo il potenziale per vivere in una sorta di lugubre distopia
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    dove le macchine hanno preso il sopravvento
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    e noi abbiamo stabilito che ciò che sappiamo non ha più importanza,
  • 16:22 - 16:25
    che il sapere non ha valore in quanto è tutto là fuori,
  • 16:25 - 16:31
    e non c'è motivo di prenderci la briga di imparare nulla di nuovo.
  • 16:31 - 16:35
    Queste sono le due scelte che abbiamo. Io so in quale futuro preferirei vivere.
  • 16:35 - 16:37
    Possiamo fare tutti questa scelta.
  • 16:37 - 16:41
    La facciamo quando siamo persone curiose, esplorative, che amano imparare,
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    che non si limitano a dire, "Appena suona la campanella e la lezione è finita,
  • 16:44 - 16:45
    non devo più imparare,"
  • 16:45 - 16:48
    oppure "Per fortuna ho il diploma. Non dovrò mai più
  • 16:48 - 16:50
    imparare cose nuove."
  • 16:50 - 16:54
    No, ogni giorno dovremmo sforzarci di imparare qualcosa di nuovo.
  • 16:54 - 16:58
    Dovremmo avere questa inesauribile curiosità per il mondo che ci circonda.
  • 16:58 - 17:01
    È da qui che provengono le persone che vedete su "Jeopardy".
  • 17:01 - 17:04
    Questi "tuttologi", non sono sapienti autistici stile Rainman,
  • 17:04 - 17:06
    seduti in casa a memorizzare l'elenco telefonico.
  • 17:06 - 17:07
    Ne ho conosciuti tanti.
  • 17:07 - 17:09
    Di solito sono persone normali
  • 17:09 - 17:13
    interessate al mondo circostante, curiose di tutto,
  • 17:13 - 17:16
    assetate di sapere su qualsiasi argomento.
  • 17:16 - 17:19
    Possiamo vivere in uno di questi due mondi.
  • 17:19 - 17:22
    Possiamo vivere in un mondo in cui i nostri cervelli, le cose che sappiamo,
  • 17:22 - 17:24
    continuano a essere ciò che ci rende speciali,
  • 17:24 - 17:30
    oppure in un mondo in cui abbiamo delegato tutto a dei malvagi supercomputer venuti dal futuro come Watson.
  • 17:30 - 17:33
    Signore e signori, la scelta è vostra.
  • 17:33 - 17:35
    Vi ringrazio molto.
Title:
Ken Jennings: Watson, Jeopardy e io, il tuttologo obsoleto.
Speaker:
Ken Jennings
Description:

L'esperto di nozioni Ken Jennings ha fatto carriera come "contenitore di informazioni". Detiene il più lungo primato di vincitore nella storia del gioco a premi americano Jeopardy!. Ma nel 2011 è stato sfidato dal supercomputer Watson -- e ha perso. Con umorismo e umiltà, Jennings ci racconta come si è sentito a essere letteralmente sconfitto da un computer al suo stesso gioco, e allo stesso tempo perora la causa del buon vecchio sapere umano (Filmato a TEDxSeattleU.)

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Video Language:
English
Team:
closed TED
Project:
TEDTalks
Duration:
17:52

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