Breve storia della malinconia - Courtney Stephens

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Ogni essere umano che vive e respira, molto probabilmente ha già provato più volta il sentimento della tristezza. Ma che cos'è esattamente la malinconia? Si può combatterla? Come? Courtney Stephens espone quanto ne sappiamo fino ad oggi sulla tristezza e ci spiega perché questo sentimento è utile e importante.

La tristezza è parte integrante
dell'esperienza umana,

ma per secoli c'è stato grande disaccordo

sulla sua esatta natura e su
se e come sia possibile rimediarvi.

Per dirla nel modo più semplice,

la tristezza è spesso considerata

come la reazione naturale
ad una situazione difficile.

Si è tristi quando un amico si allontana
o se muore un animale domestico.

Quando un amico dice: "Sono triste",

spesso gli si risponde chiedendo:
"Cos'è successo?"

Tuttavia, supporre che la tristezza
abbia una causa esterna al proprio io,

è un'idea relativamente nuova.

Per i medici dell'antica Grecia,
la tristezza non funzionava così.

Credevano che fosse un fluido scuro
all'interno del corpo.

Secondo la teoria degli umori, infatti,

corpo e anima erano controllati
da quattro fluidi detti, appunto, umori,

il cui equilibrio influiva sulla salute
e sul temperamento dell'individuo.

"Malinconia" deriva da "melaina kole",

ossia la bile nera, l'umore
ritenuto la causa della tristezza.

Moficando la dieta e ricorrendo
ad alcune pratiche mediche,

era possibile ristabilire
l'equilibrio umorale.

Anche se oggi ne sappiamo
molto di più sui sistemi

che regolano il corpo umano,

le idee dei Greci sulla tristezza

conservano una certa rilevanza,

ma non per la tristezza
che tutti a volte proviamo,

quanto per la depressione clinica.

I medici ritengono che alcuni stati
emotivi inspiegabili e di lunga durata

siano almeno in parte legati
alla chimica del cervello,

all'equilibrio tra le diverse sostanze
in esso presenti.

Come nel sistema dei Greci,

modificare l'equilibrio
di queste sostanze,

può mutare radicalmente il nostro modo
di reagire a situazioni anche estreme.

Esiste anche una lunga tradizione
che tenta di riconoscere

il valore della tristezza,

e in quel dibattito

si ritrova un argomento convincente
per il quale

la tristezza non solo è inevitabile,
ma addirittura indispensabile.

Chi non ha mai provato malinconia,

ignora in parte la vera natura
dell'essere umano.

Molti filosofi affermano che la malinconia
sia necessaria per acquisire sapere.

Robert Burton, nato nel 1557,

ha passato la sua vita
a studiare la tristezza.

Nel suo capolavoro
"Anatomia della malinconia",

scrive che "Colui che accresce la propria
sapienza, aumenta anche la sofferenza."

I poeti romantici
dell'inizio del XIX secolo

credevano che la malinconia consentisse
di capire meglio altre emozioni profonde,

come la bellezza e la gioia.

Capire la tristezza degli alberi
che in autunno perdono le foglie,

significa comprendere appieno il ciclo
della vita che porta i fiori in primavera.

Ma sapienza e intelligenza emotiva stanno
molto in alto sulla scala dei bisogni.

La tristezza ha forse un valore
a un livello più elementare, tangibile,

magari addirittura evoluzionistico?

Gli scienziati ritengono che il fatto
di piangere e sentirsi soli

sia servito ai nostri antenati
per allacciare legami sociali

e assicurarsi il sostegno altrui.

Contrariamente a rabbia e violenza,
la tristezza esprimeva sofferenza

e poteva quindi attirare immediatamente
le persone verso chi soffriva.

Ciò era di aiuto all'individuo,
ma anche alla comunità.

Forse la tristezza contribuiva a generare
l'unità necessaria alla sopravvivenza.

Molti si sono chiesti se
la sofferenza provata dagli altri

sia come quella che sentiamo noi stessi.

La poetessa Emily Dickinson scrisse:

"Misuro ogni Dolore che incontro
Con Occhi acuti, che indagano -

Mi chiedo se pesa come il Mio -
O ha una taglia più Leggera."

E nel XX secolo,

antropologi della medicina
come Arthur Kleinman

hanno raccolto testimonianze
del modo in cui si parla del dolore.

Ne risulta che le emozioni forse
non sono affatto universali

e che la cultura, in particolare
il modo in cui usiamo il linguaggio,

può influenzare
il nostro modo di sentire.

Quando parliamo di un "cuore spezzato",

la sensazione di "spezzamento"
diviene parte della nostra esperienza,

mentre in una cultura
in cui si dice "cuore ferito",

l'esperienza soggettiva
sembra essere diversa.

Alcuni filosofi contemporanei,
più che al carattere

soggettivo o universale della tristezza,
sono interessati

alla possibilità di usare la tecnologia
per eliminare ogni forma di sofferenza.

David Pearce ha suggerito
che l'ingegneria genetica

ed altre discipline contemporanee

in grado di cambiare il modo in cui l'uomo
avverte il dolore fisico e psicologico,

vengano impiegate anche per modificare
gli ecosistemi mondiali

evitando così la sofferenza
degli animali in natura.

Il progetto si chiama
"Ingegneria del paradiso".

Ma un mondo senza tristezza
non sarebbe in qualche modo triste?

Ai nostri antenati
e ai nostri poeti preferiti

forse un simile paradiso
non piacerebbe affatto.

Se c'è una cosa riguardo alla tristezza
su cui tutti sono d'accordo

è che quasi tutti l'hanno già provata

e nel corso dei millenni

si è constatato che uno dei migliori
modi di affrontarla

è parlarne, tentando di esprimere
ciò che sembra inesprimibile.

Sempre secondo Emily Dickinson:

"La 'speranza' è la pennuta creatura
Che si posa nell'anima.

E canta melodie senza parole.
E non smette mai - proprio mai."