C'è una cosa che io faccio sempre,
quando prendo un aereo,
grande o piccolo come questo.
All'atterraggio e al decollo
io guardo fuori dal finestrino.
Probabilmente lo fate anche voi,
anche quando si decolla dalla propria
città che si conosce benissimo,
o si atterra in un posto
dove si è arrivati già tante volte.
Perché in realtà,
una delle cose che ci piace del volare,
è che ci consente di vedere le cose
con una prospettiva nuova.
Gli astronauti quando sono nello spazio
per la prima volta
vedono la terra da lassù,
provano una sensazione così unica
che gli è stato dato un nome:
"Overview Effect".
È quando si rendono conto,
guardando la Terra,
che ci sono confini,
fisici e mentali,
che sono solo costruzioni artificiali,
perché
noi abbiamo due occhi,
solo davanti,
e due piedi,
solo per terra,
e ci abituiamo
a pensare a tutto
con questa prospettiva unica,
delle cose che si svolgono davanti a noi.
Non è così.
Da bambini, neonati,
ci rotoliamo di più,
i neonati adorano
essere lanciati in aria dai papà.
E quando finalmente imparano
a stare sulle loro gambe,
adorano passare
un sacco di tempo così.
È un modo per costruirsi
una visione diversa del mondo.
E poi crescono un po' e vogliono andare
sulle giostre fino a farsi girare la testa.
Poi arriva il momento
in cui si rotolano nei prati,
poi si cresce ancora,
si va sulle montagne russe,
di nuovo in alto,
di nuovo a testa in giù.
Poi però diventiamo adulti
e avere i piedi per terra
diventa sinonimo
di maturità.
Siamo così convinti
che la vita è quella che si svolge
davanti a noi all'altezza del nostro naso,
che perdiamo il senso
delle altre prospettive.
Ci facciamo l'illusione
che comprensione
significhi semplicità,
ma nella semplicità
perdiamo la ricchezza e le emozioni
delle cose più complesse.
Se per esempio io vi chiedessi,
adesso, di disegnare un albero,
io son sicura
non vi tirereste indietro.
Che ci vuole?
Il tronco,
la chioma.
Facile no?
Ma se è troppo semplice,
è più povero
Se è sempre uguale
non ci emoziona più.
Per questo motivo in televisione
quando raccontano una partita di calcio
o un grande show,
usano mille inquadrature diverse.
E la prima volta che io ho usato
Google Earth, forse anche voi,
sono andata a cercare
la mia casa dall'alto,
il posto che mi è più familiare,
volevo vederlo con occhi nuovi.
Ed è anche per questo che, probabilmente,
la realtà aumentata
è una delle tecnologie
che impatterà di più le nostre vite,
perché quando ci abituiamo
a vedere le cose con prospettive nuove,
quando siamo arricchiti
da prospettive diverse,
nulla è più come prima.
Io negli ultimi due anni ho avuto
la possibilità di fare
quest'esperienza,
di arricchirmi di nuove prospettive.
E ho imparato,
che per avere nuovi occhi,
non solo davanti,
che per lasciarmi incuriosire
anche dalle cose che mi sono più vicine,
per guardarle
con una prospettiva nuova,
non è necessario comprare
costosi biglietti aerei
o avere sofisticate tecnologie
e neanche fare salti nel vuoto
con ali di cera.
La mia prima lezione di volo,
se posso chiamarla così,
l'ho presa il giorno
in cui mi sono dimessa.
Ero direttore di un giornale,
venivo da anni molto intensi;
sedici ore al giorno di lavoro,
sempre attaccata al cellulare,
sempre a rincorrere
quelle che
mi sembravano
costanti emergenze.
Mi sono dimessa perché volevo
un po' esplorare il mondo
e un po' esplorare me stessa.
E così quando l'ho deciso
ho venduto la macchina, prima,
ho disdetto il contratto di affitto
di una casa in montagna,
ho lasciato andare un sacco di cose.
Ho rassegnato le dimissioni
e ho comprato un biglietto
di sola andata per la Nuova Zelanda.
Prima di partire, però,
mi son trovata a Milano,
nella città, nel quartiere,
dove vivevo da vent'anni.
Per la prima volta, senza un lavoro,
senza impegni,
senza fretta,
senza auto.
Ecco, se
volare vuol dire cambiare prospettiva,
io ho cominciato a volare il giorno
in cui ho ricominciato ad andare a piedi.
Ho scoperto un quartiere di botteghe
senza parcheggio,
di stradine a senso unico
che non corrispondevano
al senso di marcia da e per il lavoro.
Ho scoperto bar
dove alle 6 del pomeriggio
non c'è aperitivo,
ma si chiude, perché alle 5 del mattino
la macchina del caffè è già calda.
Ho scoperto quanti anziani
ci sono a Milano,
tra le dieci e mezzogiorno,
prima non li vedevo.
Ho cominciato a guardarli,
li ho visti attraversare la strada piano.
Sporgono una mano come a difendersi
dalla fretta degli altri.
Fanno due passi
per ogni striscia pedonale.
Li ho seguiti,
li ho visti andare al mercato,
dove compravano una mela alla volta.
E mi sono detta:
anch'io voglio fare così!
E ho cominciato a comprare gli ingredienti
per il pranzo e per la cena
ogni giorno.
Non più quella spesa quindicinale,
a volte mensile, sempre uguale.
Non so se l'avete provata anche voi.
I primi giorni mangi
carne e verdura fresca,
poi formaggi,
poi pasta,
poi surgelati,
finisci con la scatoletta di tonno.
Ecco,
per cambiare prospettiva
a volte non devi alzarti da terra,
non devi cambiare percorso,
basta cambiare ritmo.
Chi ha detto che per volare
devi prendere la rincorsa?
A volte devi rallentare,
scegliere,
selezionare.
Con quelle
camminate,
con quei percorsi
io ho anche scoperto che
a volte devi lasciar andare,
anche delle cose buone,
per poterti concentrare
su quelle migliori e più importanti.
La mia seconda lezione di volo
l'ho presa
appena atterrata in Nuova Zelanda.
Cercavo una cartina di Auckland,
per orientarmi,
e così sono entrata in un negozio
di souvenir del centro.
Ma invece di una mappa della città
ho trovato un planisfero.
Da allora quel planisfero ha guidato
tutte le tappe del mio viaggio successivo,
attraverso anche l'Australia,
l'Asia,
gli Stati Uniti, infine l'Africa.
Voi direte: perché un planisfero
per visitare città e parchi naturali?
Provo a spiegarvelo,
però ho bisogno del vostro aiuto.
Chiudete gli occhi.
Provate a visualizzare il planisfero,
una mappa del mondo.
Le Americhe lì a sinistra,
L'Asia a destra, l'Europa al centro,
l'Italia allungata nel Mediterraneo.
La vedete?
Adesso aprite gli occhi.
Questo è il mondo,
è un altro mondo possibile.
'Down under',
dicono in Nuova Zelanda,
sottosopra.
Ma non è solo sottosopra,
l'Europa non è più al centro.
L'avete trovata l'Italia?
Ecco da allora io ho viaggiato
costantemente cercando nuovi centri,
e ha trovato nuovi valori.
L'ho fatto anche nella mia vita
personale, nella mia vita privata.
Ho ridimensionato, rivalutato,
relazioni, rapporti con familiari e amici.
Ho cercato di
aver ben presente il mio punto di vista,
l'ho anche difeso,
ma ho trovato il modo
di includere quello degli altri.
Il sud sta sotto,
o sta sopra?
Abbiamo ragione entrambi se pensiamo
in termini di relazioni.
E c'è di più.
Ho spostato il focus
tra cosa è centro e cosa è casa.
Ovvero,
che cosa è semplicemente abitudine
e sta sempre lì,
ci ruotiamo attorno,
e cosa invece è davvero importante.
Che cosa ci fa sentire felici,
a nostro agio davvero.
E allora ho scoperto che casa
può essere il movimento.
Perché il mondo là fuori si muove
velocemente, che noi vogliamo o meno.
E allora la stabilità non è stare fermi,
ma è tenere il ritmo.
È un po'
rendersi conto del movimento
che succede,
del cambiamento che succede,
seguirlo, anticiparlo.
È come una danza.
Forse per questo si dice che bisogna
abbracciare il cambiamento.
Io l'ho
abbracciato anche decidendo
di andare a vivere in un paese emergente.
Volevo vedere come fosse,
e così mi sono trasferita
a Nairobi, in Kenya.
E da lì ho fatto un'altra cosa,
ho girato un po' il mappamondo.
Così.
E ho scoperto quanto è grande l'Africa.
Non è il modo
in cui siamo abituati a vederla.
L'Africa è un continente immenso,
una popolazione che cresce
di 42 milioni di persone ogni anno,
80 al minuto.
È un Paese, è un continente
in cui l'età media
è 20 anni, contro i 43 dell'Europa.
In Kenya, nel paese in cui ho vissuto,
ho trovato questa popolazione giovane,
curiosa,
intraprendente e con voglia di fare.
Ho studiato e lavorato nell'ambito
della 'social innovation',
dell'innovazione per il sociale.
E ho visto giovani che
non avevano paura di sbagliare,
provavano.
Se sbagli, avrai imparato
qualcosa di nuovo.
Ho visto un paese in cui le nuove
tecnologie non sono usate
per dare una rinfrescata
alle cose già come sono,
ma per far cose completamente nuove.
Per esempio in Kenya
non c'era il sistema bancario.
Hanno inventato Impesa,
che è il sistema di pagamenti mobile,
più avanzato al mondo.
Non c'è la rete elettrica in Kenya,
ma i pannelli solari si stanno diffondendo
a ritmo esponenziale.
Dalle città alle campagne,
persino nella savana dove alimentano
i pozzi che portano l'acqua
laddove la rete idrica non c'è.
Ecco la mia lezione di volo.
l'innovazione è di per sé senza rete,
non si può fare nulla di nuovo
se si vuole sentirsi
protetti, strutturati.
Bisogna osare.
In fondo,
si vola solo fuori dalle gabbie, no?
Ma
la mia lezione più importante,
quella che mi porto dentro,
anche con un po' d'emozione,
me l'hanno data delle donne
che non sono mai andate a scuola.
Sono le donne della tribù
Samburu,
una tribù semi-nomade
che vive nel nord del Kenya.
Le ho incontrate
in un villaggio, si chiama Kiltamani,
ed è dietro una collina,
quasi nascosto,
nel bel mezzo di un parco naturale,
dove si va per vedere
leoni, elefanti, giraffe, zebre, leopardi.
Loro sono lì
e sono le madri di bambini
che la prima volta che li ho incontrati
non avevano il coraggio di avvicinarsi,
erano un po' intimoriti.
Io tendevo le mani
e loro non si avvicinavano.
Mi sono accucciata
per stare alla loro altezza,
ma ancora niente.
Fino a che uno,
più piccolino, ha avuto coraggio,
è corso verso di me
e ha grattato via qualcosa
dalle mie mani vuote.
Non avevano mai visto un uomo bianco,
un 'muzungu' come dicono lì.
Questa tribù
non parla né inglese né swahili
ma parlano il 'maa', la lingua dei Masai.
È un dialetto antichissimo
ed è una lingua solo orale.
La ricchezza nel villaggio si misura
in mucche e capre.
Più che commercio,
c'è una forma di baratto.
La strada asfaltata più vicina
a 30 km di distanza, quindi non ci sono
né cartelli stradali, né insegne.
Non c'è nulla da leggere.
Eppure, se chiedete a queste donne
che cosa vogliono per i loro figli
loro vi rispondono senza esitazione,
senza pensarci un attimo.
Limu:
vuol dire 'istruzione'.
A Kiltamani una scuola c'è,
ci vanno 170 bambini.
Ci sono 8 classi,
l'equivalente delle nostre elementari
e delle nostre medie.
Ma ci sono solo cinque insegnanti,
perché nessuno vuole andare
in un posto così di frontiera.
Allora con un'impresa sociale keniota
che ho avuto la fortuna
di conoscere a Nairobi,
abbiamo pensato di portare un kit
con 40 tablet, che contengono
il programma di scuola ufficiale,
della scuola keniota.
Inglese, swahili, matematica, storia,
scienze e religione.
Abbiamo portato questo kit,
spiegato agli insegnanti come utilizzarlo
e abbiamo spiegato a ragazzi e bambini
che così potevano imparare
anche quando l'insegnante non c'è.
Poi per prova,
senza rete,
per fare innovazione,
ne abbiamo dato uno anche alle donne.
Lo abbiamo consegnato a una ragazza
che parlava quel po' di inglese
che le serviva
a capire i primi messaggi,
come accendere, come spegnere
e come andare avanti nelle pagine.
Dopo appena due mesi,
sono tornata,
e 48 donne si sono messe in fila
per mostrarmi che sapevano scrivere
il loro nome.
In quei pochi--
in quelle poche settimane avevano
riempito dozzine di quaderni,
come questo,
di lettere AAA, BBB.
Vi ricordate quando lo facevamo noi,
da bambini?
E hanno imparato a leggere e a scrivere.
Adesso è passato un po' più di un anno.
Leggono, scrivono,
fanno anche esercizi di matematica.
Mi chiedono anche di imparare altro,
ci chiedono qualcosa in più,
che parli di scienze,
del corpo umano.
E io mi sono chiesta
e forse ve lo chiedete anche voi:
ma che gli serve,
con tutti i problemi che hanno laggiù,
imparare a leggere e scrivere
in inglese, swahili?
Non è neanche la loro lingua.
E allora se parliamo di volo
e di prospettive,
la risposta che mi sono data
è che queste donne
volano.
Volano altissimo,
volano avanti,
volano là dove vivranno i loro figli,
anche se non è loro mondo.
E non solo hanno fatto
un cambio di prospettiva
sulle cose del presente,
ma anche un cambio di prospettiva
nel senso del tempo, loro guardano
il presente con gli occhi del futuro.
Ve le voglio far conoscere un po' meglio
e vi mostro un video
del giorno in cui siamo arrivate,
due mesi e mezzo fa
e abbiamo portato qualche altro tablet,
solo per le donne.
Così loro per la prima volta,
lavorando in gruppi
hanno potuto usarli.
E lo usavano per giocare con un'app
che fa fare esercizi di matematica
e misura il tempo.
Una sorta di gara.
Ve le faccio vedere.
Ridono,
provano,
non si vergognano,
insistono,
contano con le dita della mano.
(Voci)
(Applausi)
Sono meravigliose,
se lo meritano questo applauso.
Cambiare prospettiva, volare,
può voler dire qualche volta rallentare,
qualche volta rotolare,
anche cadendo, rialzandosi.
Ma come mi hanno insegnato loro,
vuol dire, più di tutto,
essere orgogliosi,
divertiti, felici,
non di saper fare,
ma di voler imparare
cose nuove.
Per me volare
è più di tutto guardare
al mondo là fuori
e anche a noi stessi,
con gli occhi delle possibilità.
Grazie.
(Applausi)