Questa corda mi ha salvato la vita. Ero a circa 6.000 metri sul Nanga Parbat, questa montagna altissima di 8.125 metri, che si trova in Pakistan. Stavo scalando, quando, in pieno inverno, a quelle altitudini, un ancoraggio ha ceduto e sono caduto nel vuoto. Vedete, oggi sono qui a raccontarvi questa storia, proprio perché una corda molto simile a questa ha tenuto il mio volo. E quindi posso raccontarvi la mia storia su questa montagna incredibile, dove sono stato per ben 4 anni. Ero sulla via Kinshofer, in questo versante gigantesco della montagna, in inverno, a 30, 40, 50 gradi sotto zero. Ma il mio sogno in realtà non era salire la via Kinshofer, ma riuscire a risalire al centro di questa montagna, all'inviolato sperone Mummery. Uno sperone fatto di pareti rocciose, di pareti di ghiaccio. Una via elegante, diretta e stupefacente, che sale quasi come una spada in vetta al Nanga Parbat. Vedete, affrontare uno sperone inviolato vuol dire non soltanto essere preparati tecnicamente e fisicamente, ma vuol dire anche avere il coraggio di affrontare l'ignoto, cioè ciò che non si conosce. Su montagne di questo tipo, affrontare l'ignoto vuol dire proprio avere il coraggio di sopportare quella pressione che ti fanno i luoghi che non sono mai stati calpestati. Questa zona della montagna è stata la meta di un grandissimo sognatore, Albert Frederick Mummery. Immaginate. Nel 1895 quest'uomo, 60 anni prima che una montagna di 8.000 metri fosse scalata, parte dall'Europa e ha il coraggio di affrontare mesi di viaggio per arrivare in Pakistan e poi ai piedi di questa montagna. E per primo individua questo sperone, che dalla vetta scende fino alla base della montagna. Mummery fu un uomo così coraggioso --per il quale-- questo tentativo che lui fece di arrivare alla montagna, passò alla storia. Fu riconosciuto come il primo che ebbe il coraggio di affrontare queste montagne con mezzi leali, con le proprie forze e le forze dei suoi compagni. Senza mezzi artificiali, senza corde fisse, senza portatori, senza ossigeno. E da quel momento fu individuato come colui che mise le basi dello stile alpino. Questo stile che prevede la scalata di queste montagne in velocità e con poca attrezzatura. Uno stile molto puro di scalare le montagne. Vedete, A un certo punto, mi sono ritrovato a 5.700 metri. Ho scalato questo sperone ben due volte, una volta in compagnia e una volta in solitaria. Quella volta ero da solo, ero nella tenda e affascinato da questa storia incredibile di Albert Frederick Mummery, a un certo punto ho percepito, come se fosse vero, fuori dalla tenda, con lo sperone sopra di me, con le mie paure --ero lì da solo-- È come se avessi percepito realmente la presenza di quest'uomo, che faceva scricchiolare la neve e quasi mi accompagnava, nel desiderio di ripercorrere le sue orme, ma continuare ed andare su. Ho scalato lo sperone, però non sono riuscito ad arrivare su quel plateau finale, per poi arrivare in vetta, ma-- Veramente, qui c'è il vero motivo di essere andato in inverno al Nanga Parbat. Il fatto di poter onorare quella figura audace di Albert Frederick Mummery e usare lo stile alpino, in inverno, su una via nuova, per cercare di fare, anche da solo, ciò che non era mai stato fatto nella storia dell'alpinismo. A quel punto però, sceso dallo sperone, una sfida incredibile e difficilissima-- Decido di cambiare rotta e di tornare sulla via Kinshofer. La via Kinshofer è una via percorsa d'estate più di 300 volte da tanti alpinisti di tutto il mondo, tra cui anche la mia scalata, che avvenne nel 2008, ma in piena estate. Nessuno è mai riuscito a scalare lo sperone Mummery in inverno, né tantomeno in estate. Ma la via Kinshofer invece è una via che è stata percorsa tante volte ed è il motivo per cui ci sono alcune agevolazioni, facilitazioni, sulla montagna, perché gli alpinisti a forza di salire e scendere dalla montagna lasciano degli ancoraggi sulla parete, ed alcune corde, tra le quali anche quella che, come vi dicevo all'inizio di questo racconto, ha ceduto e mi ha lasciato cadere nel vuoto. Vedete, al primo tentativo sulla via Kinshofer, in realtà, arrivo molto vicino alla vetta della montagna, circa 7.800 metri, solo 300 metri dalla vetta. A quel punto, uno dei miei due compagni ha degli evidenti sintomi del male acuto di montagna. Un male che nell'arco di pochi minuti ti fa morire. E in quel momento senza nessun dubbio abbiamo deciso di scendere dalla montagna e quindi andare verso il campo base e fermarci lì. Vedete, in quel momento ho capito una cosa molto importante. Abbiamo provato a fare questo volo, verso la vetta della montagna, ma a volte succede che la brama di arrivare in vetta, oppure il desiderio di salire sempre più in alto può essere così incantatore, che può farci dimenticare quali sono i veri valori della vita, la vita stessa. Sapete, io scalo da una vita, sin da quando ero bambino, e vivo a Latina, in pianura Pontina. E potete immaginare che le montagne lì, proprio non sono il paesaggio naturale. Pensate che, quando ho detto a degli amici che avrei voluto scalare a 8.000 metri, si son messi a sorridere, eppure, partendo dai miei monti di 1.500 metri ho avuto la forza e il coraggio di salire le Dolomiti, sulle Alpi, e poi ancora affrontare le montagne di 8.000 metri della Terra, quelle più alte, più affascinanti. Eppure in questo percorso ho fatto tanti voli, non solo quelli sul Nanga Parbat. E mi sono accorto che, a volte, i voli non sono solo il fatto di cadere dalla montagna e avere un pezzo di corda che trattiene il tuo volo. Ma può voler dire anche avere il coraggio di affrontare le sfide, di fare un passo in là, dove magari c'è quella linea di ignoto dove possiamo andare a conoscere qualcosa di diverso. E ritornando sempre a questa corda, c'è stato un momento, proprio nell'inverno scorso, quando c'è stato anche il primo volo-- In realtà ero lì sulla montagna a scalare, a cercare di fissare queste corde non in stile alpino, ma con uno stile classico con un alpinista incredibile, un polacco, Adam Bialeti. A un certo punto anche lui, mentre fissa un ancoraggio sulla parete, scivola e cade verso il basso, metro dopo metro, per 80 metri. Ero lì, sulla parete, con un solo ancoraggio fra me e lui. Potevo scegliere, per una questione razionale, o di sopravvivenza, di sganciare la corda dal mio imbrago e lasciarlo cadere, giù, verso il basso, oppure, magari bloccare la sua corda, su quell'ancoraggio lì. Perché a volte gli alpinisti fanno un tacito accordo. È quasi preferibile che vada via uno solo, piuttosto che entrambi. Ma io ed Adam non eravamo così, non siamo così. Abbiamo scelto di fare una scalata insieme, di legare quel nodo e di salire insieme. Ho tenuto l'ancoraggio. Lui ha dato un urto molto violento sulla mia corda, ma il mio peso ha ammortizzato questo urto. E sbattendo sulla parete l'ancoraggio ha tenuto, e noi siamo sopravvissuti. Lui oggi è dai suoi figli e io sono potuto tornare a casa. Ho imparato veramente tanto dalla montagna. Ma dopo tutti questi incidenti, e scelte che possono far differenza, se tenere una corda, oppure lasciare e andar via alle prime difficoltà, o a qualsiasi difficoltà che si incontra, mi son chiesto in profondità che senso avesse per me continuare a scalare le montagne e andare sempre più in alto, ad affrontare tutte le difficoltà che ci sono. In fondo, all'epoca di Mummery nel 1895, quando lui, tra l'altro, non fece ritorno dalla spedizione, l'obiettivo primario dell'alpinismo era semplicemente vedere se l'uomo fosse in grado veramente di arrivare sulle alte vette. Una volta che queste erano state salite e quindi che l'uomo aveva dimostrato che poteva andare lì su, in realtà l'alpinismo si è spostato su un altro campo, cioè sulla qualità della salita, la capacità di utilizzare uno stile veloce, su pareti sempre più difficili. Ma adesso qual è il significato, a questo punto di affrontare queste montagne, soprattutto quando su in alta quota si è come dentro un congelatore. Il vento ci sferza e siamo lontani dalle comodità che abbiamo giornalmente a casa. E soprattutto, quando scaliamo in alta quota, sappiamo per certo che quando superiamo i 7.000-8.000 metri, in realtà cominciamo a morire un po' alla volta. E se io prendessi uno di voi e lo portassi veramente, in uno schioccar di dita, a 8.000 metri, morirebbe di asfissia nell'arco di pochi minuti. Noi alpinisti possiamo essere qui, perché saliamo e scendiamo dalla montagna più volte proprio per far sì che il nostro corpo si adatti all'alta quota e quindi che i globuli rossi aumentino. E possiamo fare questa attività sportiva. Però capite bene che siamo molto lontani dalla situazione normale di agiatezza che possiamo avere nella società. Io credo che l'alpinismo sia un mezzo incredibile, lontano dai condizionamenti, sociali e civili, di affrontare un argomento che è sempre molto ostico. Quello, in qualche modo, di scendere dentro noi stessi e dentro la natura dell'uomo e cercare di capire se effettivamente siamo fatti solo di carne, ossa, neuroni e molecole. Oppure se dentro di noi c'è una forza vitale, se siamo fatti di una forza vitale, che ci permette di decidere, a volte, se rimanere in cordata con i nostri amici, se continuare a sfidare la vita, a perseverare, oppure se abbandonare a qualsiasi difficoltà. A quel punto, credo che c'è una magia nella scalata. Vedete, su questo capo di corda, a un lato di questo capo, ci sono legato io, potrebbe esserci legato uno di voi. Però, non è finita qui. All'altro capo c'è una donna o un uomo, che hanno deciso di legarsi alla vostra corda. Vedete, ogni volta che si vola, questa corda potrebbe fare ben poco, se non ci fosse all'altro capo qualcuno, che abbia deciso di tenere quella corda e quindi trattenere il vostro volo. E Io credo che, in 22 anni di alpinismo estremo, fra le tante cose che ho imparato ce ne sono due in particolare che sento mie. La prima è che, secondo me, l'uomo ha proprio questa forza vitale. Forse è una forza vitale con la quale riesce ad affrontare le difficoltà, anche quando queste difficoltà sembrano insuperabili. D'altro canto, però, bisogna stare veramente attenti a scegliere quelle persone che all'altro capo della corda decideranno di rimanere in cordata con noi. E continuare a perseverare, fino a superare le difficoltà. Credo che questa sia una lezione che avrei potuto comprendere sin da bambino. Se ci pensate, quando noi nasciamo, in qualche modo voliamo nella vita, cerchiamo di decollare. E c'è qualcuno che sorregge i nostri voli e in qualche maniera ci fa sicurezza. Solo che spesso, man mano che cresciamo, che andiamo verso la vita, non ci rendiamo conto esattamente di questa cosa. A me c'è voluto un po' per impararla. Però devo ammettere, e lo dico con un po' d'ironia, che se fossi stato un pochettino più sveglio, forse lo avrei potuto capire molto prima di passare quattro inverni interi della mia vita a prender freddo al Nanga Parbat. Grazie. (Applausi)